Autenticità e tipicità

Quanto conta la “tipicità” per vendere il vino?

Per molti produttori di vino l’identità deriva dal loro terroir, anche se a questo concetto non è stato fornito un significato condiviso a livello regionale o collettivo. In genere si riduce alla condivisione di un insieme di vitigni e di uno stile di vino chiaramente identificati come “tipici”. La tipicità, infatti, aiuta a vendere.

Le regioni vinicole che aspirano a produrre un buon vino usano spesso la Francia come modello, pensando che l’autenticità e la tipicità siano gli obiettivi da raggiungere. Ma separando queste nozioni dal contesto culturale in cui si sono formate, è davvero questo il modello giusto? Se lo è chiesto Pauline Vicard in un articolo sul portale di Jancis Robinson (link: https://www.jancisrobinson.com/articles/typicity-v-authenticity-fine-wine) di cui qui presentiamo un riassunto con qualche commento.

 

L’origine francese

Il sistema che sta alla base della tipicità in Francia ha avuto inizio nei primi anni del XX secolo, in seguito alla crisi della fillossera che aveva devastato i vigneti francesi e mandato la viticoltura in rovina. Vista la mancanza di uva molti produttori di vino francesi si procuravano uve dall’estero: principalmente dalla Spagna, dal Sud Italia e dall’Algeria.

Dopo la I Guerra Mondiale, il governo francese iniziò a considerare come definire e proteggere la qualità. Fu così che l’origine dell’uva divenne il fulcro. Le leggi che seguirono si proposero quindi non solo di proteggere il vino dal vino fraudolento, ma quello di qualità dal vino comune, con l’obiettivo di escludere le persone che non erano guidate dalla qualità. È questo il momento che ha visto nascere il sistema delle Denominazioni di Origine (AOC) che governa ancora oggi il mondo del vino francese e che ha ispirato molti altri paesi europei, tra cui l’Italia.

Il sistema francese delle AOC tocca sia la proprietà intellettuale che la certificazione di qualità. In termini di proprietà intellettuale, la legge tutela la produzione dell’autore come fosse un vero artista. Ma l’autore, in questo caso, è un corpo collettivo di vignaioli insediati all’interno della zona delimitata. A differenza dei diritti d’autore, ciò che rende le Denominazioni di Origine diverse dalle altre leggi che proteggono la proprietà intellettuale è che, negli altri casi, mentre la produzione creativa è protetta, nessuno deve dichiarare se una produzione ha un valore o meno. La “qualità”, infatti, non è una condizione implicita nella protezione dell’ultima opera di un musicista o della creazione di un artista.

DOC e AOC, invece, sono anche una certificazione di qualità, che viene determinata attraverso la degustazione dei vini, valutata secondo un senso dello stile collettivo, storicamente determinato dai c.d. costumi locali, leali e costanti. Ogni volta che ci sono dubbi su ciò che costituisce questo senso dello stile, i viticoltori, soprattutto i francesi, sono invitati a fare riferimento alle consuetudini di un dato luogo, in opposizione a ciò che potrebbe essere consuetudine nel villaggio vicino. Leale può essere inteso come onesto, ma anche sincero e fedele. Costante si riferisce al tempo. Solo il tempo può determinare ciò che è consuetudine e, per tradizione, ciò che è qualità. Non rimane molto spazio per innovazioni dirompenti e l’unico modo per cambiare è lentamente, collettivamente, localmente, nel tempo.


La tipicità

Tipicità, riferita a un prodotto agroalimentare, è un termine abbastanza recente anche in lingua italiana. Sostanzialmente, si articola come un’idea positiva che dovrebbe aiutare il consumatore a riconoscere un cibo, un ingrediente, un piatto o un vino di una regione e, allo stesso tempo, renderlo più fedele a quella regione. Tipico, però, è diverso da locale. Locale significa che il prodotto viene da un luogo, ma non è necessariamente “tipico”.

Molti produttori di vino hanno fatto per decenni la stessa cosa perché osservavano cosa stavano facendo gli altri e sapevano, ad esempio, che avrebbero dovuto iniziare la vendemmia qualche giorno prima o dopo il loro vicino, a seconda del livello di maturità che volevano raggiungere. Ma in Francia o in Germania, ad esempio, la data di vendemmia veniva decisa collettivamente con un’autorizzazione pubblica. E poiché tutti facevano quasi la stessa cosa, ogni vino aveva lo stesso sapore ed era quindi facile parlare di tipicità.

Nello stesso tempo, i produttori di vino erano responsabili delle proprie degustazioni ufficiali, essendo giudici e parte nel processo di riconoscimento della DOC: in questo modo tutto ciò che non aveva un sapore sufficientemente tipico veniva rifiutato. Questo non solo scoraggiava i viticoltori dal lavorare in altro modo, ma significava anche che la tipicità poteva essere modificata: si è iniziato definendo cosa significasse tipico e poi si sono messe in atto la vinificazione e la viticoltura necessarie per ottenere lo status di Denominazione di Origine. Il risultato è che la tipicità ha iniziato lentamente a significare conformità o standardizzazione.

 

La reazione

Lo status di AOC o DOC, tuttavia, non ha portato sempre a raggiungere un prezzo premium: quanti vini a DOC abbiamo visto sugli scaffali a € 1,99 a bottiglia, o DOCG a 3,99€? Parallelamente, con un processo iniziato in Italia nella Toscana dei primi anni ’80, alcuni produttori di vino orientati alla qualità stavano avendo successo a livello internazionale senza poter utilizzare la Denominazione perché i loro vini erano diversi dai disciplinari. Ciò ha stimolato anche il movimento verso le IGT o il vino senza IG e una nuova idea di “autenticità”.

I primi viticoltori che hanno sfidato l’equazione “tipicità = conformità”, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo secolo, volevano lavorare in simbiosi con i loro vigneti, piuttosto che trattarli come qualcosa che era lì solo per produrre vino. In pratica, questo significava che ogni azione condotta sia in vigneto che in cantina doveva essere guidata da ciò che era richiesto dallo specifico appezzamento o vasca, piuttosto che essere una ricetta applicata a tutto. Il movimento di autenticità inizialmente francese e poi diffuso in tutto il mondo, spesso utilizzando una viticoltura biologica, biodinamica o “non interventista”, è stato quindi guidato da una missione molto lodevole e orientata alla qualità, che sta conquistando molti consumatori, soprattutto giovani.

Nella sua interpretazione moderna l’autenticità è strettamente legata all’individuo e alla capacità di essere “vero”, senza preoccuparsi troppo di ciò che pensano gli altri. Ma quando ognuno fa cose diverse, mina la tipicità che si basa sull’approccio collettivo. E cosa succede quando lo fanno tutti? Supponiamo che tutti i vini provenienti da una determinata regione siano singolarmente autentici. Ognuno è realizzato da un produttore guidato dalla qualità, ma dove “qualità” ha un significato diverso per ciascuno. Ogni bottiglia ha un sapore sorprendente, ma tra di esse condividono sempre meno caratteristiche organolettiche. Si può ancora identificare l’origine e, quindi, la tipicità?

Una reputazione collettiva riduce i costi di sviluppo dei singoli marchi. Per i consumatori di vini pregiati, in particolare, la provenienza di un’etichetta da una regione nota e orientata alla qualità è uno degli attributi principali necessari per vedere i vini riconosciuti come “pregiati” e riconoscere loro stabilmente un premium price. Viceversa, senza un coordinamento collettivo, è probabile che gli investimenti a livello individuale nella qualità siano inefficienti. La realtà è che esistono solo due modi per mantenere una reputazione di qualità nel tempo: o si dispone di un consistente budget di marketing (cosa che le piccole aziende non hanno), oppure bisogna godere di un’identità collettiva costruita su una visione e uno scopo comuni.

Come può l’autenticità, quindi, rimanere un motore di qualità, senza togliere spazio all’identità collettiva? Come riportato da autorevoli pareri (ad es. Fabio Piccoli su Wine Meridian https://www.winemeridian.com/editoriale_fabio_piccoli/doc_vino_ma_ci_crediamo_o_no_alle_nostre_denominazioni_.html ), gli organi di rappresentanza delle Denominazioni, che in Italia sono i Consorzi di Tutela, devono contribuire a cambiare il modo in cui guardiamo all’identità collettiva.

Invece di definire il vino partendo da un gusto tipico concordato e codificato dai parametri di un Disciplinare, forse bisognerebbe puntare maggiormente a un insieme di valori condivisi (ad es. la sostenibilità ambientale, economica e umana), divenendo quindi un luogo per definire le migliori pratiche e un modo per decidere tra le possibili opzioni. In questo modello, la tipicità diviene territoriale e il profilo condiviso dei vini diventa una conseguenza, ma non il driver unico.

Quanto conta la “tipicità” per vendere il vino?

Per molti produttori di vino l’identità deriva dal loro terroir, anche se a questo concetto non è stato fornito un significato condiviso a livello regionale o collettivo. In genere si riduce alla condivisione di un insieme di vitigni e di uno stile di vino chiaramente identificati come “tipici”. La tipicità, infatti, aiuta a vendere.

Le regioni vinicole che aspirano a produrre un buon vino usano spesso la Francia come modello, pensando che l’autenticità e la tipicità siano gli obiettivi da raggiungere. Ma separando queste nozioni dal contesto culturale in cui si sono formate, è davvero questo il modello giusto? Se lo è chiesto Pauline Vicard in un articolo sul portale di Jancis Robinson (link: https://www.jancisrobinson.com/articles/typicity-v-authenticity-fine-wine) di cui qui presentiamo un riassunto con qualche commento.

 

L’origine francese

Il sistema che sta alla base della tipicità in Francia ha avuto inizio nei primi anni del XX secolo, in seguito alla crisi della fillossera che aveva devastato i vigneti francesi e mandato la viticoltura in rovina. Vista la mancanza di uva molti produttori di vino francesi si procuravano uve dall’estero: principalmente dalla Spagna, dal Sud Italia e dall’Algeria.

Dopo la I Guerra Mondiale, il governo francese iniziò a considerare come definire e proteggere la qualità. Fu così che l’origine dell’uva divenne il fulcro. Le leggi che seguirono si proposero quindi non solo di proteggere il vino dal vino fraudolento, ma quello di qualità dal vino comune, con l’obiettivo di escludere le persone che non erano guidate dalla qualità. È questo il momento che ha visto nascere il sistema delle Denominazioni di Origine (AOC) che governa ancora oggi il mondo del vino francese e che ha ispirato molti altri paesi europei, tra cui l’Italia.

Il sistema francese delle AOC tocca sia la proprietà intellettuale che la certificazione di qualità. In termini di proprietà intellettuale, la legge tutela la produzione dell’autore come fosse un vero artista. Ma l’autore, in questo caso, è un corpo collettivo di vignaioli insediati all’interno della zona delimitata. A differenza dei diritti d’autore, ciò che rende le Denominazioni di Origine diverse dalle altre leggi che proteggono la proprietà intellettuale è che, negli altri casi, mentre la produzione creativa è protetta, nessuno deve dichiarare se una produzione ha un valore o meno. La “qualità”, infatti, non è una condizione implicita nella protezione dell’ultima opera di un musicista o della creazione di un artista.

DOC e AOC, invece, sono anche una certificazione di qualità, che viene determinata attraverso la degustazione dei vini, valutata secondo un senso dello stile collettivo, storicamente determinato dai c.d. costumi locali, leali e costanti. Ogni volta che ci sono dubbi su ciò che costituisce questo senso dello stile, i viticoltori, soprattutto i francesi, sono invitati a fare riferimento alle consuetudini di un dato luogo, in opposizione a ciò che potrebbe essere consuetudine nel villaggio vicino. Leale può essere inteso come onesto, ma anche sincero e fedele. Costante si riferisce al tempo. Solo il tempo può determinare ciò che è consuetudine e, per tradizione, ciò che è qualità. Non rimane molto spazio per innovazioni dirompenti e l’unico modo per cambiare è lentamente, collettivamente, localmente, nel tempo.


La tipicità

Tipicità, riferita a un prodotto agroalimentare, è un termine abbastanza recente anche in lingua italiana. Sostanzialmente, si articola come un’idea positiva che dovrebbe aiutare il consumatore a riconoscere un cibo, un ingrediente, un piatto o un vino di una regione e, allo stesso tempo, renderlo più fedele a quella regione. Tipico, però, è diverso da locale. Locale significa che il prodotto viene da un luogo, ma non è necessariamente “tipico”.

Molti produttori di vino hanno fatto per decenni la stessa cosa perché osservavano cosa stavano facendo gli altri e sapevano, ad esempio, che avrebbero dovuto iniziare la vendemmia qualche giorno prima o dopo il loro vicino, a seconda del livello di maturità che volevano raggiungere. Ma in Francia o in Germania, ad esempio, la data di vendemmia veniva decisa collettivamente con un’autorizzazione pubblica. E poiché tutti facevano quasi la stessa cosa, ogni vino aveva lo stesso sapore ed era quindi facile parlare di tipicità.

Nello stesso tempo, i produttori di vino erano responsabili delle proprie degustazioni ufficiali, essendo giudici e parte nel processo di riconoscimento della DOC: in questo modo tutto ciò che non aveva un sapore sufficientemente tipico veniva rifiutato. Questo non solo scoraggiava i viticoltori dal lavorare in altro modo, ma significava anche che la tipicità poteva essere modificata: si è iniziato definendo cosa significasse tipico e poi si sono messe in atto la vinificazione e la viticoltura necessarie per ottenere lo status di Denominazione di Origine. Il risultato è che la tipicità ha iniziato lentamente a significare conformità o standardizzazione.

 

La reazione

Lo status di AOC o DOC, tuttavia, non ha portato sempre a raggiungere un prezzo premium: quanti vini a DOC abbiamo visto sugli scaffali a € 1,99 a bottiglia, o DOCG a 3,99€? Parallelamente, con un processo iniziato in Italia nella Toscana dei primi anni ’80, alcuni produttori di vino orientati alla qualità stavano avendo successo a livello internazionale senza poter utilizzare la Denominazione perché i loro vini erano diversi dai disciplinari. Ciò ha stimolato anche il movimento verso le IGT o il vino senza IG e una nuova idea di “autenticità”.

I primi viticoltori che hanno sfidato l’equazione “tipicità = conformità”, tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del nuovo secolo, volevano lavorare in simbiosi con i loro vigneti, piuttosto che trattarli come qualcosa che era lì solo per produrre vino. In pratica, questo significava che ogni azione condotta sia in vigneto che in cantina doveva essere guidata da ciò che era richiesto dallo specifico appezzamento o vasca, piuttosto che essere una ricetta applicata a tutto. Il movimento di autenticità inizialmente francese e poi diffuso in tutto il mondo, spesso utilizzando una viticoltura biologica, biodinamica o “non interventista”, è stato quindi guidato da una missione molto lodevole e orientata alla qualità, che sta conquistando molti consumatori, soprattutto giovani.

Nella sua interpretazione moderna l’autenticità è strettamente legata all’individuo e alla capacità di essere “vero”, senza preoccuparsi troppo di ciò che pensano gli altri. Ma quando ognuno fa cose diverse, mina la tipicità che si basa sull’approccio collettivo. E cosa succede quando lo fanno tutti? Supponiamo che tutti i vini provenienti da una determinata regione siano singolarmente autentici. Ognuno è realizzato da un produttore guidato dalla qualità, ma dove “qualità” ha un significato diverso per ciascuno. Ogni bottiglia ha un sapore sorprendente, ma tra di esse condividono sempre meno caratteristiche organolettiche. Si può ancora identificare l’origine e, quindi, la tipicità?

Una reputazione collettiva riduce i costi di sviluppo dei singoli marchi. Per i consumatori di vini pregiati, in particolare, la provenienza di un’etichetta da una regione nota e orientata alla qualità è uno degli attributi principali necessari per vedere i vini riconosciuti come “pregiati” e riconoscere loro stabilmente un premium price. Viceversa, senza un coordinamento collettivo, è probabile che gli investimenti a livello individuale nella qualità siano inefficienti. La realtà è che esistono solo due modi per mantenere una reputazione di qualità nel tempo: o si dispone di un consistente budget di marketing (cosa che le piccole aziende non hanno), oppure bisogna godere di un’identità collettiva costruita su una visione e uno scopo comuni.

Come può l’autenticità, quindi, rimanere un motore di qualità, senza togliere spazio all’identità collettiva? Come riportato da autorevoli pareri (ad es. Fabio Piccoli su Wine Meridian https://www.winemeridian.com/editoriale_fabio_piccoli/doc_vino_ma_ci_crediamo_o_no_alle_nostre_denominazioni_.html ), gli organi di rappresentanza delle Denominazioni, che in Italia sono i Consorzi di Tutela, devono contribuire a cambiare il modo in cui guardiamo all’identità collettiva.

Invece di definire il vino partendo da un gusto tipico concordato e codificato dai parametri di un Disciplinare, forse bisognerebbe puntare maggiormente a un insieme di valori condivisi (ad es. la sostenibilità ambientale, economica e umana), divenendo quindi un luogo per definire le migliori pratiche e un modo per decidere tra le possibili opzioni. In questo modello, la tipicità diviene territoriale e il profilo condiviso dei vini diventa una conseguenza, ma non il driver unico.