Il vino sfuso secondo Fabio Pracchia

Abbiamo scambiato qualche parola con Fabio Pracchia – libero pensatore e degustatore del vino – e gli abbiamo chiesto di raccontarci, a briglia sciolta, la sua idea di vino sfuso. Qui condividiamo con voi le riflessioni che ne sono emerse.

(Potete leggere, se lo volete, dei suoi assaggi  – anche di sfuso! – e delle  visite alle aziende, sul suo nuovo spazio online: www.ripenessisall.com. Non mancate di farlo!)

“La trasformazione recente della nostra viticoltura con una generazione rinnovata di viticoltori portatori felici di entusiasmo, competenza e curiosità che ha sostanzialmente ravvivato lo scenario ingessato della viticoltura di inizio millennio, ha modificato alcuni modelli di proposta enologica apparentemente inamovibili. Questa viticoltura ha diverse caratteristiche, che elenco:

1. Approfondisce la conoscenza della campagna italiana, amplificando il vetusto concetto delle denominazioni di origine
2. Recupera il patrimonio ampelografico antico snobbato dalla maggior parte degli agronomi vecchio stile che privilegiavano le estensioni monoclonali a cordone speronato e quindi la meccanizzazione del lavoro
3. Cura la vita del suolo
4. Lavora le uve rispettandone l’essenza
5. Produce vini legati al territorio di origine, sottraendo il più possibile le forzature enologiche
6. Trova forme dinamiche di commercializzazione

Partendo da questi elementi originari, risulta chiaro come il vino prodotto, al netto delle diverse qualità definite dal lavoro in campo e in cantina, abbia dignità in tutte le sue espressioni.
Da qui nasce la necessità di apprezzare il vino sfuso di qualità come embrione di una produzione che riporta al centro la materia prima, il frutto di partenza, retoricamente sbandierato dall’enologia di stampo produzionista (“la qualità si ottiene in vigna”) ma poi mortificato da tutta l’estetica interventista con la quale buona parte della critica enologica italiana e dei consumatori sono cresciuti facendo il gioco dell’industria e non della viticoltura di qualità.

Lo sfuso rappresenta quindi una nuova forma di educazione al bere: più pragmatica che teorica. Nella sua ruvidezza essenziale, nei suoi cenni ossidativi, più o meno presenti, si ritroverà un conseguente sapore complesso e rustico che funzionerà come fondamentale didattico sul quale poi, per progressivo affinamento delle proprie capacità interpretative, acquisire le competenze di esperto o semplice appassionato.

La crescita di qualità sarà così progressiva rispetto a una materia di origine condivisa, che nel caso dei vini eletti e fini (per geografia di appartenenza, per nobiltà dell’uva, per storia e talento umano) raggiungerà quella proporzione degli elementi costitutivi alla quale lo sfuso invece, per sua stessa natura, non potrà mai arrivare.
Ma l’esercizio ripetuto del bere consapevole ha nello sfuso una fondamentale fase propedeutica, perché è da esso che si origina il vino, quello grezzo e quello fine senza distinzioni.

Considerate poi l’aspetto dell’acquisto. Comprare sfuso pone in modo diretto l’appassionato a contatto con il produttore per un valore del vino legato al reale costo di produzione e non alla sua, sacrosanta, promozione. Considerata la diffusione di distributori nazionali di vino sfuso, rimane da augurarsi che tali soggetti possano o intendano organizzare veri e propri mercati dove ovviare alla mancanza di contatto tra chi compra e chi produce.
Proprio la vicinanza al produttore ha sdoganato negli ultimi anni il consumo di sfuso che sembra interessare sempre più i bevitori consapevoli e desiderosi di trasparenza. Laddove le certificazioni che proliferano anche negli anonimi scaffali dei supermercati e addirittura negli autogrill cessano di avere il valore di garanzia di qualità a priori, l’unica strada è il rapporto diretto con la materia prima.

Ultimo ma non per importanza la questione antropologica: lo sfuso si lega indissolubilmente all’enografia minima della nostra Italia, alla competenza popolare e antica sull’agricoltura che lega la terra alle persone e le persone alle comunità nel componimento di paesaggio condiviso e custodito dalla collettività. Un ultimo elemento del nostro passato condiviso di contadini che è dietro l’angolo della storia ma che la tecnologia e l’industrializzazione hanno obliato in appena una generazione.
Assaggiare un vino sfuso di un contadino anonimo di una vigna ritorta e senza nome di una sperduta campagna italiana è una pratica di conoscenza del nostro comune passato e un omaggio al vino come prodotto della terra di cui, grezzo o fine che sia, è frutto”.

 

Abbiamo scambiato qualche parola con Fabio Pracchia – libero pensatore e degustatore del vino – e gli abbiamo chiesto di raccontarci, a briglia sciolta, la sua idea di vino sfuso. Qui condividiamo con voi le riflessioni che ne sono emerse.

(Potete leggere, se lo volete, dei suoi assaggi  – anche di sfuso! – e delle  visite alle aziende, sul suo nuovo spazio online: www.ripenessisall.com. Non mancate di farlo!)

“La trasformazione recente della nostra viticoltura con una generazione rinnovata di viticoltori portatori felici di entusiasmo, competenza e curiosità che ha sostanzialmente ravvivato lo scenario ingessato della viticoltura di inizio millennio, ha modificato alcuni modelli di proposta enologica apparentemente inamovibili. Questa viticoltura ha diverse caratteristiche, che elenco:

1. Approfondisce la conoscenza della campagna italiana, amplificando il vetusto concetto delle denominazioni di origine
2. Recupera il patrimonio ampelografico antico snobbato dalla maggior parte degli agronomi vecchio stile che privilegiavano le estensioni monoclonali a cordone speronato e quindi la meccanizzazione del lavoro
3. Cura la vita del suolo
4. Lavora le uve rispettandone l’essenza
5. Produce vini legati al territorio di origine, sottraendo il più possibile le forzature enologiche
6. Trova forme dinamiche di commercializzazione

Partendo da questi elementi originari, risulta chiaro come il vino prodotto, al netto delle diverse qualità definite dal lavoro in campo e in cantina, abbia dignità in tutte le sue espressioni.
Da qui nasce la necessità di apprezzare il vino sfuso di qualità come embrione di una produzione che riporta al centro la materia prima, il frutto di partenza, retoricamente sbandierato dall’enologia di stampo produzionista (“la qualità si ottiene in vigna”) ma poi mortificato da tutta l’estetica interventista con la quale buona parte della critica enologica italiana e dei consumatori sono cresciuti facendo il gioco dell’industria e non della viticoltura di qualità.

Lo sfuso rappresenta quindi una nuova forma di educazione al bere: più pragmatica che teorica. Nella sua ruvidezza essenziale, nei suoi cenni ossidativi, più o meno presenti, si ritroverà un conseguente sapore complesso e rustico che funzionerà come fondamentale didattico sul quale poi, per progressivo affinamento delle proprie capacità interpretative, acquisire le competenze di esperto o semplice appassionato.

La crescita di qualità sarà così progressiva rispetto a una materia di origine condivisa, che nel caso dei vini eletti e fini (per geografia di appartenenza, per nobiltà dell’uva, per storia e talento umano) raggiungerà quella proporzione degli elementi costitutivi alla quale lo sfuso invece, per sua stessa natura, non potrà mai arrivare.
Ma l’esercizio ripetuto del bere consapevole ha nello sfuso una fondamentale fase propedeutica, perché è da esso che si origina il vino, quello grezzo e quello fine senza distinzioni.

Considerate poi l’aspetto dell’acquisto. Comprare sfuso pone in modo diretto l’appassionato a contatto con il produttore per un valore del vino legato al reale costo di produzione e non alla sua, sacrosanta, promozione. Considerata la diffusione di distributori nazionali di vino sfuso, rimane da augurarsi che tali soggetti possano o intendano organizzare veri e propri mercati dove ovviare alla mancanza di contatto tra chi compra e chi produce.
Proprio la vicinanza al produttore ha sdoganato negli ultimi anni il consumo di sfuso che sembra interessare sempre più i bevitori consapevoli e desiderosi di trasparenza. Laddove le certificazioni che proliferano anche negli anonimi scaffali dei supermercati e addirittura negli autogrill cessano di avere il valore di garanzia di qualità a priori, l’unica strada è il rapporto diretto con la materia prima.

Ultimo ma non per importanza la questione antropologica: lo sfuso si lega indissolubilmente all’enografia minima della nostra Italia, alla competenza popolare e antica sull’agricoltura che lega la terra alle persone e le persone alle comunità nel componimento di paesaggio condiviso e custodito dalla collettività. Un ultimo elemento del nostro passato condiviso di contadini che è dietro l’angolo della storia ma che la tecnologia e l’industrializzazione hanno obliato in appena una generazione.
Assaggiare un vino sfuso di un contadino anonimo di una vigna ritorta e senza nome di una sperduta campagna italiana è una pratica di conoscenza del nostro comune passato e un omaggio al vino come prodotto della terra di cui, grezzo o fine che sia, è frutto”.