Ai confini del vignaiolo

Industriali, commercianti, imprenditori, vignaioli, contadini, artigiani. Chi produce vino viene generalmente inserito in una di queste categorie, che a loro volta hanno dato vita a sindacati, associazioni di categoria e altri organismi di rappresentanza, nonché a manifestazioni specifiche. Categorie che spesso, nella comunicazione spicciola, sono utilizzate in modo manicheo per contrapporre i “bravi” ai “cattivi”.

Negli anni ho frequentato ripetutamente eventi riservati ad alcune delle tipologie sopra enunciate, quali il Mercato dei vini dei Vignaioli Indipendenti (FIVI) a Piacenza oppure “Vini di Vignaioli” a Fornovo, per non parlare poi di quanto avviene in concomitanza di Vinitaly. Eventi nei quali si sottolinea molto la parola vignaiolo, anche con la traduzione francese vigneron, che qualcuno utilizza in senso rafforzativo.


Il vino nasce come prodotto agricolo. Quindi, chi lavora in vigna è, a tutti gli effetti, un vignaiolo che produce una materia prima, l’uva, che poi deve essere trasformata in un succo fermentato. Tuttavia esistono molte sfumature sul ruolo del vignaiolo, dovute al prodotto che si vuole ottenere, al modo e agli strumenti che si utilizzano per ottenerlo, al consumatore cui si rivolge. Dove finisce il vigneron tout court e dove inizia “il resto del mondo”? Siamo sicuri che non ci possa essere un’evoluzione moderna del primo, tale da non fagli perdere tale qualifica e i valori positivi che essa trasmette?

La FIVI , ad esempio, raggruppa viticoltori che soddisfano i seguenti criteri:

  • Il vignaiolo che coltiva le sue vigne, imbottiglia il proprio vino, curando personalmente il proprio prodotto. Vende tutto o parte del suo raccolto in bottiglia, sotto la sua responsabilità, con il suo nome e la sua etichetta.
  • Il vignaiolo rinuncia all’acquisto dell’uva o del vino a fini commerciali. Comprerà uva soltanto per estreme esigenze di vinificazione, o nel caso di viticoltura di montagna per salvaguardare il proprio territorio agricolo, in conformità con le leggi in vigore.

Quindi, il vignaiolo che, per esigenze di mercato, acquista uva da altri viticoltori cui fornisce reddito, magari seguendone in parte la fase agricola, da tale criteri risulta escluso (almeno a leggere il sito). Qui non si legga una vena polemica, anzi. Ammiro la FIVI e ho consigliato aziende, con cui ho collaborato, di iscriversi e partecipare alle sue iniziative che sono state una vera novità nel panorama vinicolo italiano. Ma tali criteri mi servono come punto di partenza per quanto segue.

Nelle mie lezioni sul marketing del vino, a iniziare da quelle nei corsi in Wine Business Management per MIB Trieste, porto sempre gli studenti a riflettere sulla contemporanea esistenza di almeno due categorie di “vino”: quello commerciale (c.d. “commodity wines”) e quello legato all’origine (“terroir wines”). Sono due tipologie che esistono da decenni e, più recentemente, hanno visto un’evoluzione sulla spinta delle diverse filosofie produttive del Vecchio e Nuovo Mondo. Due modelli di business tutt’altro che impermeabili tra loro e che, invece, stanno facendo emergere una terza tipologia di vino, che è stata spesso definita come quella dei vini a marchio (“branded wines”). Leggete questo interessante articolo su Wine Business International. Se questa categoria è spesso stata confusa o sovrapposta a quella dei vini commerciali (quando l’input è una materia prima slegata dall’origine), sono sempre più convinto che si stia ritagliando uno spazio crescente che sta avendo un forte impatto sulla struttura produttiva e sulle caratteristiche fondative di molte aziende. Aziende che, almeno nei paesi europei, sono nate e gestite da vignaioli al fine di produrre vini che possono avere nella DOC o DOCG (quindi nell’origine) la fonte del loro brand.

La globalizzazione degli ultimi 20 anni ha aperto mercati prima non raggiungibili o poco interessati al prodotto vino, rendendoli potenziali canali di vendita delle nostre etichette. Qualsiasi prodotto, dal vino commerciale che viaggia in container o flexi-tank a quello in poche centinaia di bottiglie. Se il vino commerciale si era mosso già prima (pensiamo al Lambrusco delle Cantine Riunite che spopolava negli USA tra anni ’70 e ’80 o all’Asti Spumante), la novità per l’Italia (che fino al 2002 esportava più vino sfuso rispetto a quello imbottigliato) è stato il crescente successo commerciale, sebbene non a volume, anche dei vignaioli, dei vitigni autoctoni, delle piccole DOC, che hanno potuto uscire dai confini locali o dai circoli degli enoappassionati.

E questo anche all’interno delle grandi Denominazioni quali Prosecco, Conegliano Valdobbiadene, Pinot Grigio delle Venezie, Chianti, Montepulciano d’Abruzzo, Sicilia o simili, la cui visibilit ha fatto da traino anche a piccoli produttori, fornendo loro il reddito per sopravvivere, crescere e svilupparsi, a volte consentendo di investire contemporaneamentein produzioni prima trascurate, ma mantenendo la figura canonica di vignaiolo. Penso ad esempio a molte aziende friulane che hanno potuto far conoscere Malvasia, Ribolla Gialla, Pignolo o Schioppettino grazie alle decine di migliaia di bottiglie di Pinot Grigio esportate.

Quale è stato il risultato? Da un lato si sono sviluppati grandi gruppi che contemplano tenute gestite come singole aziende, non solo nella produzione ma, in diversi casi, anche nel marketing e nel commerciale (ne sono esempio Ornellaia e Luce all’interno di Frescobaldi, in parte anche Cà del Bosco per Santa Margherita). Dall’altro abbiamo visto aziende di vignaioli, diciamo quelli con un più spiccato senso di imprenditorialità, che hanno compreso come l’internazionalizzazione offrisse loro opportunità per raggiungere più mercati, vendendo più bottiglie e, magari, a un prezzo migliore (o almeno con un incasso garantito). Per farlo, quando non hanno potuto ingrandire la proprietà e i vigneti (scoraggiati dai prezzi crescenti in molte zone), hanno affittato terreni, stipulato contratti di acquisto dell’uva con altri piccoli vignaioli, definito accordi con cantine sociali (che sono composte da vignaioli, sebbene seguano solo la fase della produzione dell’uva) al fine di aumentare la produzione, soddisfare la domanda (ad es. per entrare nel canale distributivo moderno) e non penalizzare i clienti. Il tutto senza perdere il controllo del processo produttivo, dalle impostazioni agronomiche (pensiamo a vigneti certificati bio o biodinamici) fine al consumatore finale, al fine di mantenere la qualità che da sempre si sono prefissi.

Sono aziende che fondono il tradizionale approccio legato all’origine e al terroir con quello moderno orientato al brand, che arbitrariamente inserisco nella classe tra 1 e 3 milioni di bottiglie e un fatturato tra 3 e 10 milioni di Euro. Aziende nelle quali è richiesto un minimo di standardizzazione del processo produttivo al fine di garantire ai diversi mercati una costanza qualitativa legata alla reputazione che si è costruita. Se tecnicamente non rientrino più nella definizione di vignaiolo indipendente sopra riportata, essi continuano a ritenersi vignaioli perché il loro rapporto con la vigna, l’origine del vino e una certa artigianalità non è cambiato. E non si tratta di un fenomeno solo italiano: in Borgogna o nella Champagne anche piccoli vigneron cult hanno aperto la loro società di négoce, sia perché le leggi sulla successione li penalizzano sia perché non dispongono dei capitali per acquisire nuovi vigneti.

Eppure vedo che una parte dei consumatori inizia a snobbare i vini di queste aziende. Aziende che hanno contribuito a costruire il successo di molti territori quando essere contadini era quasi un disonore. Quando va bene li definisce “corretti ma non emozionanti”, quando va male li schernisce con termini quali “commerciale”, “finto”, “standardizzato”. Se poi si prendono in esame aspetti della produzione quali l’utilizzo di lieviti selezionati, il diserbo chimico o i solfiti, apriti cielo! Si percepisce un certo imbarazzo, da parte di alcuni duri e puri, quando in quella che è a mio parere la più bella degustazione dell’anno, ossia la presentazione della Guida Slow Wine a Montecatini, nella splendida cornice (finalmente l’ho usato pure io! 😀) delle Terme del Tettuccio, a fianco ai vini “Slow” si vedono premiate etichette di aziende ormai brand. Nella stessa Piacenza ho avuto modo di sentire appassionati discutere sulla pertinenza della presenza di alcune aziende all’interno del Salone FIVI in quanto poco vigneron. Lo stesso pregiudizio viene ormai esteso ad aziende biologiche o biodinamiche di decine o centinaia di ettari, come se le pratiche agronomiche “virtuose” fossero appannaggio solo delle micro aziende.  Anche sulla figura del vignaiolo si sta facendo un po’ troppa ideologia, cercando contrapposizioni che spesso i produttori stessi non sentono. A me preoccupa quando questa ideologia inizia a permeare gli scaffali delle enoteche, le carte dei vini o, peggio, il modo di vendere di alcuni agenti e commerciali che preferiscono fare leva sulla presunta perdita della verginità dei concorrenti più imprenditoriali, invece di saper dimostrare in cosa i vini che propongono sono migliori.

Industriali, commercianti, imprenditori, vignaioli, contadini, artigiani. Chi produce vino viene generalmente inserito in una di queste categorie, che a loro volta hanno dato vita a sindacati, associazioni di categoria e altri organismi di rappresentanza, nonché a manifestazioni specifiche. Categorie che spesso, nella comunicazione spicciola, sono utilizzate in modo manicheo per contrapporre i “bravi” ai “cattivi”.

Negli anni ho frequentato ripetutamente eventi riservati ad alcune delle tipologie sopra enunciate, quali il Mercato dei vini dei Vignaioli Indipendenti (FIVI) a Piacenza oppure “Vini di Vignaioli” a Fornovo, per non parlare poi di quanto avviene in concomitanza di Vinitaly. Eventi nei quali si sottolinea molto la parola vignaiolo, anche con la traduzione francese vigneron, che qualcuno utilizza in senso rafforzativo.


Il vino nasce come prodotto agricolo. Quindi, chi lavora in vigna è, a tutti gli effetti, un vignaiolo che produce una materia prima, l’uva, che poi deve essere trasformata in un succo fermentato. Tuttavia esistono molte sfumature sul ruolo del vignaiolo, dovute al prodotto che si vuole ottenere, al modo e agli strumenti che si utilizzano per ottenerlo, al consumatore cui si rivolge. Dove finisce il vigneron tout court e dove inizia “il resto del mondo”? Siamo sicuri che non ci possa essere un’evoluzione moderna del primo, tale da non fagli perdere tale qualifica e i valori positivi che essa trasmette?

La FIVI , ad esempio, raggruppa viticoltori che soddisfano i seguenti criteri:

  • Il vignaiolo che coltiva le sue vigne, imbottiglia il proprio vino, curando personalmente il proprio prodotto. Vende tutto o parte del suo raccolto in bottiglia, sotto la sua responsabilità, con il suo nome e la sua etichetta.
  • Il vignaiolo rinuncia all’acquisto dell’uva o del vino a fini commerciali. Comprerà uva soltanto per estreme esigenze di vinificazione, o nel caso di viticoltura di montagna per salvaguardare il proprio territorio agricolo, in conformità con le leggi in vigore.

Quindi, il vignaiolo che, per esigenze di mercato, acquista uva da altri viticoltori cui fornisce reddito, magari seguendone in parte la fase agricola, da tale criteri risulta escluso (almeno a leggere il sito). Qui non si legga una vena polemica, anzi. Ammiro la FIVI e ho consigliato aziende, con cui ho collaborato, di iscriversi e partecipare alle sue iniziative che sono state una vera novità nel panorama vinicolo italiano. Ma tali criteri mi servono come punto di partenza per quanto segue.

Nelle mie lezioni sul marketing del vino, a iniziare da quelle nei corsi in Wine Business Management per MIB Trieste, porto sempre gli studenti a riflettere sulla contemporanea esistenza di almeno due categorie di “vino”: quello commerciale (c.d. “commodity wines”) e quello legato all’origine (“terroir wines”). Sono due tipologie che esistono da decenni e, più recentemente, hanno visto un’evoluzione sulla spinta delle diverse filosofie produttive del Vecchio e Nuovo Mondo. Due modelli di business tutt’altro che impermeabili tra loro e che, invece, stanno facendo emergere una terza tipologia di vino, che è stata spesso definita come quella dei vini a marchio (“branded wines”). Leggete questo interessante articolo su Wine Business International. Se questa categoria è spesso stata confusa o sovrapposta a quella dei vini commerciali (quando l’input è una materia prima slegata dall’origine), sono sempre più convinto che si stia ritagliando uno spazio crescente che sta avendo un forte impatto sulla struttura produttiva e sulle caratteristiche fondative di molte aziende. Aziende che, almeno nei paesi europei, sono nate e gestite da vignaioli al fine di produrre vini che possono avere nella DOC o DOCG (quindi nell’origine) la fonte del loro brand.

La globalizzazione degli ultimi 20 anni ha aperto mercati prima non raggiungibili o poco interessati al prodotto vino, rendendoli potenziali canali di vendita delle nostre etichette. Qualsiasi prodotto, dal vino commerciale che viaggia in container o flexi-tank a quello in poche centinaia di bottiglie. Se il vino commerciale si era mosso già prima (pensiamo al Lambrusco delle Cantine Riunite che spopolava negli USA tra anni ’70 e ’80 o all’Asti Spumante), la novità per l’Italia (che fino al 2002 esportava più vino sfuso rispetto a quello imbottigliato) è stato il crescente successo commerciale, sebbene non a volume, anche dei vignaioli, dei vitigni autoctoni, delle piccole DOC, che hanno potuto uscire dai confini locali o dai circoli degli enoappassionati.

E questo anche all’interno delle grandi Denominazioni quali Prosecco, Conegliano Valdobbiadene, Pinot Grigio delle Venezie, Chianti, Montepulciano d’Abruzzo, Sicilia o simili, la cui visibilit ha fatto da traino anche a piccoli produttori, fornendo loro il reddito per sopravvivere, crescere e svilupparsi, a volte consentendo di investire contemporaneamentein produzioni prima trascurate, ma mantenendo la figura canonica di vignaiolo. Penso ad esempio a molte aziende friulane che hanno potuto far conoscere Malvasia, Ribolla Gialla, Pignolo o Schioppettino grazie alle decine di migliaia di bottiglie di Pinot Grigio esportate.

Quale è stato il risultato? Da un lato si sono sviluppati grandi gruppi che contemplano tenute gestite come singole aziende, non solo nella produzione ma, in diversi casi, anche nel marketing e nel commerciale (ne sono esempio Ornellaia e Luce all’interno di Frescobaldi, in parte anche Cà del Bosco per Santa Margherita). Dall’altro abbiamo visto aziende di vignaioli, diciamo quelli con un più spiccato senso di imprenditorialità, che hanno compreso come l’internazionalizzazione offrisse loro opportunità per raggiungere più mercati, vendendo più bottiglie e, magari, a un prezzo migliore (o almeno con un incasso garantito). Per farlo, quando non hanno potuto ingrandire la proprietà e i vigneti (scoraggiati dai prezzi crescenti in molte zone), hanno affittato terreni, stipulato contratti di acquisto dell’uva con altri piccoli vignaioli, definito accordi con cantine sociali (che sono composte da vignaioli, sebbene seguano solo la fase della produzione dell’uva) al fine di aumentare la produzione, soddisfare la domanda (ad es. per entrare nel canale distributivo moderno) e non penalizzare i clienti. Il tutto senza perdere il controllo del processo produttivo, dalle impostazioni agronomiche (pensiamo a vigneti certificati bio o biodinamici) fine al consumatore finale, al fine di mantenere la qualità che da sempre si sono prefissi.

Sono aziende che fondono il tradizionale approccio legato all’origine e al terroir con quello moderno orientato al brand, che arbitrariamente inserisco nella classe tra 1 e 3 milioni di bottiglie e un fatturato tra 3 e 10 milioni di Euro. Aziende nelle quali è richiesto un minimo di standardizzazione del processo produttivo al fine di garantire ai diversi mercati una costanza qualitativa legata alla reputazione che si è costruita. Se tecnicamente non rientrino più nella definizione di vignaiolo indipendente sopra riportata, essi continuano a ritenersi vignaioli perché il loro rapporto con la vigna, l’origine del vino e una certa artigianalità non è cambiato. E non si tratta di un fenomeno solo italiano: in Borgogna o nella Champagne anche piccoli vigneron cult hanno aperto la loro società di négoce, sia perché le leggi sulla successione li penalizzano sia perché non dispongono dei capitali per acquisire nuovi vigneti.

Eppure vedo che una parte dei consumatori inizia a snobbare i vini di queste aziende. Aziende che hanno contribuito a costruire il successo di molti territori quando essere contadini era quasi un disonore. Quando va bene li definisce “corretti ma non emozionanti”, quando va male li schernisce con termini quali “commerciale”, “finto”, “standardizzato”. Se poi si prendono in esame aspetti della produzione quali l’utilizzo di lieviti selezionati, il diserbo chimico o i solfiti, apriti cielo! Si percepisce un certo imbarazzo, da parte di alcuni duri e puri, quando in quella che è a mio parere la più bella degustazione dell’anno, ossia la presentazione della Guida Slow Wine a Montecatini, nella splendida cornice (finalmente l’ho usato pure io! 😀) delle Terme del Tettuccio, a fianco ai vini “Slow” si vedono premiate etichette di aziende ormai brand. Nella stessa Piacenza ho avuto modo di sentire appassionati discutere sulla pertinenza della presenza di alcune aziende all’interno del Salone FIVI in quanto poco vigneron. Lo stesso pregiudizio viene ormai esteso ad aziende biologiche o biodinamiche di decine o centinaia di ettari, come se le pratiche agronomiche “virtuose” fossero appannaggio solo delle micro aziende.  Anche sulla figura del vignaiolo si sta facendo un po’ troppa ideologia, cercando contrapposizioni che spesso i produttori stessi non sentono. A me preoccupa quando questa ideologia inizia a permeare gli scaffali delle enoteche, le carte dei vini o, peggio, il modo di vendere di alcuni agenti e commerciali che preferiscono fare leva sulla presunta perdita della verginità dei concorrenti più imprenditoriali, invece di saper dimostrare in cosa i vini che propongono sono migliori.